Sol Levante


Riflessi dal Sol Levante nell’opera di Marco Besso (1843-1920)

 

Teresa Ciapparoni La Rocca


già docente di
Lingua, letteratura, cultura del Giappone
Facoltà di Lettere e Filosofia "Sapienza" Università di Roma
Ordine del Sol Levante 2013, raggi in oro con rosetta

 


    La raccolta paremiologica di Marco Besso è imponente sia per il numero di volumi che per l’ambito che copre, includendo anche paesi asiatici. E’ poi da sottolineare che la sua attenzione verso il Giappone non risponde a un interesse per l’esotico, tipica dei circoli japonisant dell’epoca, ma semplicemente per una espressione, fra tante, del sapere umano, come ben testimonia, pur nella inevitabile esiguità degli esempi portati, il suo Roma e il papa nei proverbi e nei modi di dire.[1] Non va dimenticato infatti che in Occidente gli studi giapponesi, fatto salvo un enclave ristretto in Olanda che con la compagnia delle Indie aveva mantenuto annuali contatti con quel paese sin dal sec. XVI, erano iniziati dopo l’apertura al commercio dei porti giapponesi nel 1858 e quindi materiali in traduzione, ancora oggi non così numerosi, erano una vera rarità.

 [1]  Una prima edizione nel 1889 col titolo Roma nei proverbi e nei modi di dire, poi rivista col titolo integrato nel 1903, infine una postuma nel 1971.



     Ma per quali vie Besso era giunto a conoscere quei pochi testi disponibili? In archivio sono attestati scambi epistolari con funzionari dell’ambasciata del Giappone, ma le date partono dal 1903 e sono piuttosto legati alle ricerche su Dante: non stupisca infatti che lì la conoscenza del sommo poeta fu da subito molto diffusa, sia perché la poesia era considerata sino ad allora l’unica vera attività letteraria sia perché la traduzione di H.W. Longfellow dell’opera fu usata, probabilmente per i temi di vivo interesse locale (come metamorfosi, inferno anche se buddhista, viaggi extraterreni) per insegnare la lingua inglese.[2] Si deve pensare a rapporti più personali, quindi non necessariamente documentati, o notizie apprese su giornali o in conferenze.

[2] Cfr. T. Ciapparoni La Rocca, “Dante in Giappone: la fortuna della Divina Commedia”, L’opera di Dante nel mondo, Atti del Convegno Internazionale, Roma 27-29 aprile 1989, a cura di Enzo Esposito, Ravenna, 1992, pp. 275-280.



    Quanto all’interesse per i proverbi, un’ipotesi è la suggestione del lavoro di Giuseppe Pitrè (1841-1916), tra l’altro collaboratore di Angelo de Gubernatis (1840-1913), con cui Besso venne in contatto. Pitrè non compare nei documenti d’archivio ma era buon amico di Giacomo Lumbroso, consuocero di Marco e anch’egli studioso di rango, incontrato durante il soggiorno palermitano: possibile che Besso lo avesse quindi conosciuto per quel tramite.

   I volumi conservati alla Fondazione Besso che riportano proverbi giapponesi sono in sostanza tre, dei quali uno in francese: Cent Proverbes Japonais (Paris: E.  Leroux, 1885).[3]  Il maggiore pregio di questa opera, interessante per la minuziosa interpretazione e la spiegazione della situazione culturale che è lo sfondo delle massime, sono le incisioni che accompagnano ciascun testo rendendo il volume da collezione: risulta infatti tirato in soli 400 esemplari. Esse sono opera di un artista particolare: Kawanabe Kyōsai (1831-1889). Artista anticonvenzionale, realizzò le sue opere con un forte senso dell’humour, costatogli anche la prigione. Partecipò all’Esposizione Mondiale di Vienna del 1873 e in Giappone nel 1876 ricevette la visita di Émile Guimet (1836-1918) e Félix Régamey (1844-1907), con cui si cimentò in una gara di ritratti. Forse per questo era noto ai francesi e si è scelto di tradurre i proverbi da lui illustrati. Questo libro, peraltro con alcune pagine intonse, è annotato nei taccuini di Besso e forse gli è stato donato in occasione di una sua visita in Francia. Sui due volumi in lingua italiana vale la pena di considerare lo sviluppo degli studi giapponesi in Italia e le possibilità di Besso di conoscerli.

[3] Curata da Francis Steenackers, già console di Francia a Yokohama, e Ueda Tokunosuke, autore anche di un’opera sulla ceramica giapponese, traduttore Kitamura Yoshikatsu.



     Firenze, dove egli vive dal 1871 al 1877, è la città la cui l’università per prima ospita corsi di giapponese. Nel 1863 infatti Antelmo Severini (1828-1909), che per apprendere il giapponese si era recato a Parigi da Léon de Rosny (1837-1914) primo docente europeo della lingua, riceve l’incarico per le Lingue dell’Estremo Oriente nell’ateneo fiorentino. Quattro anni dopo Angelo de Gubernatis, attivissimo studioso di culture dell’Asia estrema, anche se il suo ambito specifico di competenza era il sanscrito, anima in continuità la scena fondando la Rivista orientale, poi nel 1872 la Società Italiana per gli Studi Orientali, quindi nel 1876 presso l’Istituto Universitario l’Accademia Orientale, che pubblica per circa sei anni il Bollettino Italiano degli Studi Orientali. Il tutto culmina nel 1878 con la realizzazione a Firenze del IV Congresso degli Orientalisti: quando ormai Besso ne è partito, ma per sei anni c’era stato.

     Quindi Besso nel 1877 torna a Trieste. Di lì non è lontana Venezia dove viene istituito, anche se poi subito spostato a Milano, il primo consolato del Giappone e uno dei primi corsi di lingua giapponese, con conseguente presenza di insegnanti di madre lingua e studiosi italiani della materia. Le correnti di scambio corrono nascoste: l’archeologo Giacomo Boni (1859-1925), formatosi nell’università lagunare nei primi anni Ottanta, stabilisce rapporti amichevoli con lo scultore Naganuma Moriyoshi (1857-1942), per alcuni anni docente di lingua giapponese presso la locale Scuola Superiore di Commercio.[4]  Ancora nel 1898 sono in contatto: Naganuma è di nuovo a Venezia, ora artista affermato, per la Seconda Biennale e gli presenta un giovane filosofo, così ne parla Boni, di nome Tanaka Masutarō (?-?),[5]  il quale per ben sei mesi sarà ospite a Roma dell’archeologo, nel frattempo ivi trasferito e impegnato negli scavi del Foro Romano. Sono del 1902 una lettera di Boni, conservata in Fondazione, in cui segnala una persona per l’assunzione presso le Generali e un’altra in cui egli declina un invito di Besso in termini molto amichevoli: questi, che aveva anche lavorato a Venezia nel 1870, vive a Trieste sua città natale dal 1877 al 1885 e nel 1881 partecipa, presentando una memoria sulle assicurazioni in Europa, al III Convegno Geografico Internazionale in Venezia,[6]  in occasione del quale si tiene una mostra di carte geografiche anche del Giappone. Sono presenti diversi personaggi coinvolti con la cultura nipponica, tra cui lo zoologo Enrico Giglioli (1845-1909), tra i primi a raggiungere il Giappone e autore di un ponderoso volume su tutto il viaggio di circumnavigazione della nave su cui era imbarcato, dove molte pagine sono riservate al quel paese;[7]   Guglielmo Berchet (1833-1913), già console onorario del Giappone nel breve periodo veneziano della sede e autore di un volume sulla prima presenza di giapponesi in Italia.[8]  E’ di Berchet una lettera del 1903 in cui, oltre a parlare di Dante, caldeggia l’assunzione di una persona presso le Generali, segno di una amichevole consuetudine.

[4]  T. Ciapparoni La Rocca, “Boni e il Giappone”, Giacomo Boni e le istituzioni straniere. Apporti alla formazione delle discipline storico-archeologiche, Atti del Convegno Internazionale, Roma 25 giugno 2004, a cura di Patrizia Fortini, Roma, 2008, pp. 79-84

[5]  田中松太郎, informazione ricevuta dal prof. ISHII Motoaki.

[6] Questa notizia è presente nel dattiloscritto della vita di Marco Besso, redatto da Antonio Martini e Gaetana Scano, conservato nell’archivio della Fondazione. Alla relazione “viene attribuito un premio nell’esposizione ivi allestita”.

[7] E. H. Giglioli. Viaggio intorno al globo della R. Pirocorvetta italiana Magenta negli anni 1865-66-67-68 sotto il comando del capitano di fregata V.F. Arminjon. Relazione descrittiva e scientifica, con una introduzione etnologica di Paolo Mantegazza, Milano, 1875

[8]  G. Berchet, Le antiche ambasciate giapponesi in Italia (1877)



     Anche quando si trasferisce a Roma, nel 1890, Besso non cessa di frequentare l’area veneziana per curare i possedimenti di campagna a Stra, tanto che nel 1895 giunge a candidarsi al Parlamento nel collegio di Mirano-Dolo. E’ poi lettore della rivista L’Ateneo Veneto, pubblicata dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, dove compaiono articoli relativi al Giappone, tra cui nel 1877  la prima stesura del volume di Berchet sulle ambasciate giapponesi; nel 1886 quella che si può considerare la prima grammatica italiana della lingua giapponese,[9]  opera di un ex studente della Scuola, Agostino Cottin (?-1906). In questo articolo viene segnalata l’imminente uscita di una vera grammatica giapponese, scritta da Giulio Gattinoni, docente di quella Scuola, grammatica acquistata da Besso e caratterizzata dall’appendice: “Alcuni proverbi popolari giapponesi”, con 25 esempi in traduzione italiana.[10]   Infine a Roma nel 1898 si tiene il IV Congresso degli Orientalisti.

[9]  A. Cottin, “Nozioni sulla lingua giapponese”, in L’Ateneo Veneto, Venezia 1886, pp. 363-377 

[10] G. Gattinoni, Grammatica giapponese della lingua parlata, Venezia, 1890, pp. 161-166.



     Nella capitale l’insegnamento del giapponese inizia nel 1878, affidato sino al 1896 all’avv. Carlo Valenziani (1831-1896): specifico la professione di avvocato, da lui esercitata e non semplicemente un titolo, perché come consulente delle Ferrovie Romane potrebbe aver avuto modo di incontrare Besso per motivi di lavoro e rimanere in contatto con lui.[11]  Infatti, proprio al Valenziani si devono alcune delle pubblicazioni sui proverbi giapponesi conservate in Fondazione: due estratti dai Rendiconti dei Lincei,[12]  oltre al volume del 1896 che li ingloba.[13]   E da quest’ultimo testo, dove risultano sottolineati a matita il n. 118 e il n. 141, sono tratti gli unici due proverbi riportati nel volume citato all’inizio, non elencati però nell’edizione originale del 1889.

[11] Ad esempio, nel 1875 Besso aveva pubblicato un importante studio su La cassa pensioni delle Ferrovie dell’Alta Italia.

[12]  C. Valenziani, “Sul letterato giapponese Kai-Bara Yosi-Huru e sulla sua opera Kotowasa-kusa”, Roma, Rendiconti v. I, fasc. 3, Lincei, 1892 e Idem, “Proverbi giapponesi contenuti nel libro V della raccolta kotowa-sa-kusa”, Roma, Rendiconti v. V, fasc. 3, Lincei, 1896, pp. 299-319

[13] Kai Fara [ma KAIBARA Y.], Yosi Furu, Kotowa sa Kusa: proverbi giapponesi raccolti e commentati da Kai Fara Yosi Furu, versione italiana di Carlo Valenziani, Roma, 1896



     Il primo compare a p. 119 nell’edizione definitiva del 1971, cap. V: “Roma non fu fatta in un giorno”, e viene citato così: “Tai motu fa faturi tore, letteralmente: le  cose grandi pigliale a trucioli, vale a dire - nota il Valenziani - che quando per lungo tempo si sono accumulati gli sforzi, le cose finiscono coll’avere effetto spontaneamente.”

     La trascrizione corretta del giapponese è oggi standardizzata nel sistema Hepburn, cioè consonanti all’inglese e vocali all’italiana, in daimotsuwa hatsuri tori. La finale e della prima trascrizione è una forma di imperativo, che si perde nella seconda divenendo i, ma il significato è quello: spezzettare ciò che è grande e quindi, spiega il dizionario dei proverbi, non cercare di risolvere in un sol colpo un problema complesso. Questo proverbio non è presente nei dizionari più recenti.[14]

[14]  C’è in T. Suzuki –E. Hirota, Koji kotowaza jiten [Dizionario di detti antichi e proverbi], Tokyo, 1941, ma non in E. Orii, Kurashi no naka no koji kotowaza jiten [Dizionario di detti antichi e proverbi relativi alla vita quotidiana], Tokyo, 1970.




     Il secondo compare a p. 142, nello stesso capitolo, e viene citato così: “Kau ni irite ha, gau ni sitagahe, quando sei giunto in una terra, conformati alle usanze di quella”. Anche in questo caso la trascrizione è leggermente diversa gōni itteha gōni shitagau e si perde la forma imperativa, che per entrambi compariva nelle fonti, mentre è interessante la spiegazione che sarebbe molto piaciuta a Besso: Rōmadewa Rōma no gotoku ikiyo, ovvero, nella traduzione inglese fornita da un dizionario: when in Roma, do as the Romans do! Il significato letterale è: entrato in un paese, rispettalo.

     Nelle fonti, ad esempio il Dōjikyō un testo sapienzale a sfondo confuciano la cui prima edizione a stampa risale al XIV secolo e in uso sino all’inizio della modernità - cioè quando Valenziani ha iniziato ad operare-, c’è un proverbio che Besso avrebbe pure certamente apprezzato: Shippai wa seikō no moto, ovvero il fallimento è l’origine del successo. Infatti, c’è da chiedersi se la vita talentuosa di Marco Besso lo sarebbe stata in egual misura ove il dissesto economico della famiglia non lo avesse precocemente proiettato nel mondo del lavoro e in giro per l’Europa. Un successo che forse a quel primo, non suo, fallimento deve uno stimolo non indifferente.·

 

 

     Only two Japanese proverbs are quoted in the book by Besso about Rome and the Pope: very few but at the time Japanese studies were just starting and translated materials were scanty. Probably, in his capacity of representative of Assicurazioni Generali (an insurance company), he kept in touch with the author of the book from which it cites, Carlo Valenziani, lawyer at the Ferrovie Romane (Roman Railways).

 

 

 

· Si  ringrazio il personale della biblioteca e dell’archivio della Fondazione Marco Besso per la cortese, competente disponibilità.



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